MSF missions

11/12/2019

Dingila, Ueles, Province Orientale, Congo - Febbraio 2014 - 2

Autore: Roberto La Tour

Dormo abbastanza bene, e al mattino vado in cerca della latrina dei pazienti, dall’altra parte della strada dietro la scuola dove il buco è più grande e nessuno la usa, poi mi vesto e vado a fare colazione, sperando se non in croissants e petits pains au chocolats perlomeno pane burro e marmellata. C’è un grosso thermos pieno di caffè (menomale), e… Un vassoio pieno di banane fritte. Null’altro. Parliamo di banane plantain, non di banane dolci. Meglio di niente. Poi partenza per la clinica mobile vera e propria, dove si fa la diagnosi della malattia del sonno a tutti gli abitanti del villaggio. Ci si va a piedi, non è lontano, bella strada tra i bambù e alberi immensi, e arrivo a «Bulia Mandaya II». Da un lato della strada la chiesa, dove installiamo il nostro laboratorio: ci sono affreschi sacri dietro al nostro microscopio (sto parlando di un tukul rettangolare con dei disegni sul muro di terra); dall’altro lato la capanna dove effettuiamo le punture lombari e quella aperta dove si curano altre malattie (malaria, infezioni respiratorie e diarrea). Tutto viene installato, i generatori trasportati in motocicletta, i tavoli, i microscopi e le centrifughe. Poco a poco la gente arriva, si mette I coda, viene registrata, gli si palpa il collo e gli si fa una puntura al dito. Una goccia di sangue mescolata a una di reagente viene ruotata per cinque minuti su un agitatore costruito col Lego, se c’è agglutinazione si procede con altri esami. Coloro ai quali viene confermata la malattia subiscono una puntura lombare per poter analizzare al microscopio il liquido cerebrospinale. Si scoprirà così se il paziente può essere curato con una serie di punture (stadio I) o se necessita un complicato regime di flebo (stadio II, cerebrale). Comunque di pazienti ne abbiamo trovati pochi, abbiamo però potuto verificare le tecniche e correggere alcune pratiche. 

Tornati al campo, vado a fare un giro per la scuola molto vuota (i bambini si portano la sedia da casa), ma con dentro delle capre. Vado a fare una doccia prima che venga buio, evitando quindi molti insetti e con meno rischio di perdere il sapone. Mi concedo il lusso di un po’ di acqua calda nel secchio? Nah, fa abbastanza caldo così. Poi pranzo, niente antilope ma pesce del fiume, peccato le spine perché è buono. Con i soliti riso, polenta insipida, foglie di manioca. Di nuovo film, ma io vado a dormire con i tappi e mi sveglierò tutto un prurito: ecché, ci sono le pulci? Forse forse la tenda sarcofago non sarebbe stata così male... Rinfrancato da un caffè caldo e un piatto di banane fritte, si riparte per la seconda clinica mobile in auto. La strada è difficile, dei bambù caduti la sbarrano e bisogna scendere e spostarli o tagliarli col machete. L’autista si lamenta che è difficile perché il suo machete non è affilato. Ma perché non l’ha fatto affilare? Arriviamo a destinazione, un villaggio sparpagliato in una radura aperta nella foresta. Montiamo tutto, e il lavoro procede tranquillo, con la diagnosi di un caso e due controlli di vecchi pazienti. Una mosca tsé-tsé si posa sul braccio di un collaboratore, quello la uccide prima che possa pungerlo e me la mostra. Sembra un tafano. Ripartiamo in motocicletta, dei 125 guidati da autisti locali, e in mezz’ora siamo di ritorno al campo dove ci aspetta del riso, delle foglie di manioca e del pesce. Avrei preferito l’antilope, perché il pesce benché ottimo è pieno di spine assassine. Poi si riparte per Dingila, andiamo in automobile e dobbiamo di nuovo liberarci di bambù che sbarrano la strada usando machete che non tagliano.

Serata e notte tranquille a Dingila, e il mattino dopo partenza per l’altra clinica mobile, a Dissolo. Questa volta si va in moto, e sono più di due ore. L’autista è bravissimo, perché la strada è pessima, e dobbiamo strisciare contro bambù e piante varie. Poi c’è da attraversare il fiume Uélé, e non c’è ponte. C’è un traghetto, ma per qualche motivo attraversiamo con una piroga, moto comprese, io avevo un po’ paura, dopotutto si tratta di un tronco scavato in cui si fanno stare due moto, quattro persone e i bagagli. E’ andato tutto bene, anche se Nicolas si lamentava di avere le chiappe bagnate. Arriviamo prima alla clinica mobile che sta ancora lavorando, poi proseguiamo per il campo. Sembra meglio organizzato che l’altro, con le tende a ferro di cavallo intorno alla sala da pranzo (una tettoia di bambù). Le latrine e le docce sono di cemento, e il buco è più grande. Il cibo è simile: riso, polenta, antilope e pesce spinoso;  banane fritte a prima colazione. Questa volta non scampiamo alle tende-sarcofago, ma non ci si dorme così male dopotutto (menomale che non ha piovuto). Anche qui la sera cinema. Scopro così cosa sono i film di Jean Claude van Damme. Vado a letto prima della fine con i tappi, ma sento gli abitanti del villaggio fare tifo per il buono (Eeeee quando le da e Buuuu quando se le prende).

Il mattino dopo, con caffè e banane nello stomaco partiamo per la clinica mobile in un bellissimo villaggio in mezzo a piante di caffè e alberi altissimi. Montiamo tavoli sedie strumenti batterie e generatori, e ci prepariamo a testare i primi pazienti. Una folla si assiepa, siamo una curiosità. La mattinata procede tranquilla, non troviamo casi, ci portano due anziani con difficoltà a camminare. Uno è un uomo di ottantacinque anni vestito con un panno all’effige di Obama, chissà com’è arrivato fin lì? Molte foto di gruppo, gli piace farsi fotografare. Quando abbiamo finito uno degli abitanti mi porta un regalo: due uova! La sera ce le cuociono e Nicolas e io le mangeremo sode. Torniamo al campo a piedi, è a circa due chilometri. Portiamo del materiale, io ho una sedia sulla testa. Il pomeriggio riunione con lo staff per dare una breve lezione e correggere qualche tecnica, poi libertà. Quattro colleghi congolesi si lanciano in una partita indiavolata di Uno dall’altra parte della strada, dove di fronte a dei tukul delle donne si rifanno le acconciature. Non sto a darvi il menù della cena, lo sapete già, poi abbiamo avuto diritto ad un altro film di Van Damme, che ho guardato fino alla fine prima di andare a ronfare nel sarcofago.

Sabato mattina partenza per tornare a Dingila, questa volta in automobile. La strada è proprio spaventosa, ad un tratto abbiamo dovuto scendere e camminare mentre l’autista riusciva a far passare il veicolo così alleggerito. Al fiume questa volta abbiamo usato il traghetto, una piattaforma galleggiante a motore che miracolosamente funziona. Arrivo a Dingila senza difficoltà e lunga riunione di “debriefing” con Nicolas. Eravamo quindi in ufficio, l’aria diventava sempre più pesante, il cielo si è oscurato e all’improvviso c’è stato una specie di piccolo uragano con cataratte d’acqua venute giù dal cielo con al contempo un vento fortissimo. Improvvisamente CRAC e nel giardino del vicino un grande albero intero è stato divelto. Poi la calma è tornata, il sole pure, e i danni in città sono stati fortunatamente minimi. Menomale che non è successo a Mulambi o a Dissolo! Domenica di riposto, lunedì partenza di Nicolas e di alcuni colleghi (tre giorni di pace), io resto fino a venerdì per incontrare i responsabili di uno studio clinico, vedere che le atre attività (trasfusione) vadano bene, discutere col tecnico che fa la manutenzione dei nostri strumenti e verificare due microscopi superlusso che abbiamo nella farmacia. Venerdì partenza, un’oretta a Bunia, arrivo a Entebbe, l’autista mi porta Kampala, dove passerò due giorni tranquillissimi in una casa con due colleghi di MSF e domenica sera riparto via Amsterdam alla volta di Ginevra con la valigia piena di manghi e caffè.


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