MSF missions

21/11/2009

Bunia, Gety and Doruma, eastern RDC - Inverno 2009

Autore: Roberto La Tour

Dovevo già partire in ottobre, finalmente all’alba di sabato 21 novembre (ma perché per questi viaggi bisogna sempre alzarsi a ore antelucane?) prendo il volo della British Airways che, via Londra, mi porta a Kampala. Le nuove misure di sicurezza fanno si che a Heatrow c’è grande confusione e siamo in tanti, senza nulla dove posare la roba, a riprendere la valigia, tirarsi su i calzoni, rimettere la cintura e riallacciarsi le scarpe. Con me viaggia Yolanda, medico epidemiologo di Losanna. Finalmente eccoci a notte inoltrata a Entebbe, coda per il visto, attesa bagagli, per fortuna arrivano, un autista è venuto a prenderci, e si parte per Kampala. Ci mettono in un alberghetto, mentre la notte successiva sono in guest-house. Briefing con la capomissione, briefing con la coordinatrice medicale, e poi partenza per il Congo. Aeroplano a elica bimotore, si sorvola il Lago Alberto, bellissimo e inquietante con il Ruwenzori da un lato e il Nilo dall’altra, e si atterra a Bunia, tra i grandi aerei bianchi dei caschi blu dell’ONU. Purtroppo questa volta non sono alloggiato a CAPA (un ex-albergo carino, il “Centre d’Acceuil Pacifique”, ma in una casa tutta sbilenca, “Pacos”, dove si fa la coda per il bagno e le luci sono bassissime.

Per alcuni giorni resto a Bunia, dove devo mettere su insieme a Yolanda lo studio “anemie/trasfusioni”. Adesso vi spiego. A Bunia abbiamo un grande ospedale pediatrico, l’Hôpital “Bon Marché” (BM). Molti bambini arrivano con delle anemie spaventose, dobbiamo fare parecchie trasfusioni, e certi bambini non rispondono alle trasfusioni, o fanno delle reazioni. Lo studio servirà a chiarire le cause delle anemie e l’effetto delle trasfusioni. E così mentre Yolanda impazziva in reparto a spiegare a medici, clinici e infermieri come inserire i dati dei bambini nel registro dello studio e come riempire la richiesta di esame per il laboratorio,  io dovevo spiegare ai tecnici tutti i nuovi test  da fare ai bambini e ai donatori, e assicurarmi che il supplemento di lavoro fosse gestibile. Dopo alcuni giorni di confusione lo studio si è messo in moto. Bisogna dire che alcuni bambini arrivavano in uno stato tremendo, un anemia estrema, delle infezioni di malaria oltre ogni limite, e pure casi di malnutrizione grave. Molti ricevono trasfusione dopo trasfusione, sono i “politrasfusi”, ed è comune nel loro caso che appaiano reazioni contro il sangue del donatore, anche se il gruppo è compatibile.

La domenica siamo andati a piedi in città. Bunia è abbastanza sparpagliata, le strade sono in terra e molte case e botteghe hanno una specie di veranda porticata davanti. In centro c’è una specie di monumento ai Gorilla di Montagna, ma non so se i turisti sono mai passati da Bunia per andarli a vedere. La sera siamo usciti alcune volte, ristorante indiano e bar dei caschi blu, ci sono molti cooperanti e volontari qui. Invece non siamo andati al ristorante greco, dove non si mangia affatto greco ma i muri sono decorati da affreschi raffiguranti scene della mitologia ellenica. Sennò si resta a CAPA dove la cuoca ci cucina manicaretti e c’è una simpatica atmosfera, si mandano i guardiani a comperarci birre. Da Pacos, con le sue luci fioche, purtroppo, non si può venire a piedi dopo il calar del sole per motivi di sicurezza, e quindi bisogna chiamare per radio un’auto per fare trecento metri.

Lunedì mattina, partenza per Gety. Strada sterrata tutta a curve sulle colline, vista a sprazzi sul Lago Alberto, posti di blocco dell’esercito congolese, che ci fanno passare ma fermano tutti gli altri per ricavare qualche soldo, peggio di un racket. Fa quasi freddo, siamo a duemila metri. Arrivo a Gety su una collina, freddo, umido, ma bello. La casa è in fondo a un cortile con a destra una strana struttura protetta da sacchi di sabbia, niente paura, è l’ufficio. Mangiamo un boccone, e via all’ospedale, abbastanza lontano. Una vecchia struttura costruita dai belgi composta da vari edifici in mattoni rossi, vado subito in laboratorio. Una stanzetta sudicia, piccola, con tre vecchi microscopi. Sui muri poster sulla prevenzione della tubercolosi e un calendario 2009 con Saddam Hussein e famiglia eroici e bombaroli. Noi ovviamente stiamo costruendo un nuovo laboratorio, ma intanto che il cemento asciuga è usato come sala parto. Avrete capito che siamo lì da poco e che non è un ospedale MSF, ma speriamo che con il nostro intervento si riesca a farne un centro di riferimento della zona. Sera e notte tranquille, poi il mattino dopo bella passeggiata fino a un centro di salute lì vicino. Nulla di particolare da raccontare, stiamo facendo lavori per ingrandire la struttura, davanti agli operai al lavoro che cementano grossi mattoni irregolari un mucchio di bambini gioca a pallone sotto grandi alberi. Il pomeriggio ritorno all’ospedale, sul pavimento del laboratorio in costruzione sta distesa una donna che ha partorito da poco e ha perso molto sangue. Il fratello fa una donazione, gli preleviamo mezzo litro mentre lui mingherlino se ne sta seduto su un lettino. In laboratorio intanto ho scoperto che non uno dei microscopi è in buono stato, quelli ordinati da noi dovrebbero arrivare a giorni. Prima di partire faccio un giro dell’ospedale, bello il reparto pediatria appena risistemato. Ci sono almeno quattro cucine, quella dei pazienti, quella dei bambini, quella per il personale e quella per i parenti. Quando dico “cucina”, notate bene, intendo uno spazio all’aperto o sotto una tettoia con dei fornelletti a legna, qualche pentola e due o tre grossi mortai.

Ritorno a Bunia, e mi sistemano di nuovo a Pacos, ma questa volta in un dormitorio mansardato sotto il tetto. Non solo lo stesso gallo mi sveglia prima dell’alba, non solo si sentono i canti religiosi, ma non c’è più l’acqua calda e c’è qualcuno in camera che si mette a telefonare alle quattro! Per fortuna mi consolo con gli stupendi manicaretti che ci preparano a CAPA, inclusi gli spiedini di pesce del Lago Alberto alla graticola…

Finalmente, partenza per Doruma: si sorvola la grande foresta equatoriale, e atterriamo su una pista in terra sgomberata per l’occasione. Niente automobili a Doruma: ci sono venuti a prendere in motocicletta! E così seduti sul sellino, con un altro motociclista che porta i bagagli, andiamo prima dal gendarme locale a mostrare documenti, visti, permessi e autorizzazioni, poi i a casa. L’ospedale è accanto, si va a piedi. E così passo quattro giorni in questo bel posto verdeggiante, a valutare il laboratorio e assicurarmi che tutto è pronto per ricominciare le attività di diagnosi e cura della Malattia del Sonno o Tripanosmiasi Africana Umana (HAT). Nonostante il lavoro sia stato tanto e intenso, mi sono riposato, ma riposato! Un silenzio assoluto, niente moschea, i galli si sentono solo in lontananza, e la vicina chiesa non erutta canti e scampanate ad ore inappropriate. Dividevo la mia camera con Claude, fotografo professionista, più anziano di me, ma una persona squisita. Poveretto, gli ho lasciato il letto e mi sono preso il materasso per terra sotto una tenda in camera a mo’ di zanzariera, e lui si svegliava con gran mal di schiena, io dormivo come un puccio. In laboratorio lo staff non è molto competente perché nessuno è un tecnico professionista, ma il problema non viene da loro ma dai reparti, che inviano richieste di esami inutili: per esempio quella poveretta col torcicollo per aver portato pesi eccessivi sulla testa a cui è stata fatta una puntura lombare (prelievo del liquido dentro il midollo spinale) per sospetta meningite! Ma l’unico medico congolese è il direttore dell’ospedale, noi ne abbiamo uno, e le diagnosi sono fatte da infermieri/e… Domenica mattina, visita dell’immensa chiesa cattolica costruita dai belgi nel 1910, e passeggiata fino al mercato. La gente ci va dopo la messa. I bambini sono vestiti a festa, tutti in ghingheri e fiocchi. Il mercato è animato e rumoroso, ma non c’è granché: magliette, mutande, sapone, caffé ancora da torrefare, qualche utensile di plastica, pile, e pochissimo cibo, qualche banana, tranne in un angolo dove avevano appena ucciso un bue e ne stavano vendendo i pezzi. Sembra che l’economia agricola sia autarchica, nel senso che la gente mangia ciò che coltiva. Il pomeriggio, bloccati in ufficio dal diluvio più violento che abbia mai visto, la sera simpatica cenetta con la dottoressa peruviana e il fidanzato belga che ci fanno la pizza in un forno a legna costruito da lui. Insieme a noi ci sono due volontari di una ONG di Bergamo, proprio simpatici, hanno montato un disco satellitare per avere internet, ci connettiamo col wireless, è una meraviglia.

Lunedì ritorno a Bunia, ultimi giorni per sistemare tutti i problemi dello studio anemie/trasfusioni, lavoro nel laboratorio dell’ospedale pubblico per il progetto HIV, impazzisco con uno strumento italiano che una ONG canadese ha offerto e che non corrisponde ai nostri reagenti, riesco a mettermi in contatto con l’azienda a Firenze e a ottenere i protocolli per farlo funzionare. Devo anche dare tutte le spiegazioni in reparto su come prelevare i campioni di sangue per la diagnosi dell’AIDS pediatrico. Eh si, il nostro progetto a Bunia è in pediatria, e oltre alla malaria severa, alla malnutrizione, alle meningiti, alle parassitosi intestinali, ci sono pure i bambini con l’AIDS. L’HIV se lo sono preso in utero dalla madre, che in certi casi è stata infettata dal marito, in altri dalla soldataglia che l’ha violentata. Il mondo è bello.

E così ho passato gli ultimi giorni a Bunia, non più a Pacos per fortuna ma a CAPA, in una stanza con su scritto “salon d’honneur”, ma si tratta della stireria con dentro due letti, la doccia è in fondo al giardino e si riempie la sera di termiti volanti, ma ci sono gli spiedini di pesce e il gratin di patate, oltre alle birre fresche bevute in compagnia dei colleghi nel salotto/veranda di vimini. La cosa peggiore erano le attese del proprio turno per l’accesso alla mail, un’unica connessione non molto buona, niente wireless, e tutti che avevano cosa urgenti da scrivere e ricevere, io a spiegare che dovevo assolutamente connettermi con l’azienda di Firenze… Infine è giunto il momento degli addii, partenza per Kampala, debriefing con la capomissione, l’auto mi viene a prendere, imbottigliamento mostruoso in strada per l’aeroporto, ho quasi perso l’aereo, e ritorno n quel di Ginevra.


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