MSF missions

31/01/2000

Amudat, Uganda - Primavera 2000 #1

Autore: Roberto La Tour

Club Med umanitario e arrivo ad Amudat

Eccomi qua, a Amudat, in Uganda, a nord del Monte Elgon, vicino alla frontiera con il Kenya. Arrivato a Nairobi la sera dell?otto gennaio, sono stato accolto all?aeroporto da un autista con una vecchia auto scassa e portato alla ?guest-house? di MSF-Switzerland. E cosi mi sono installato in una simpatica casetta di due piani con un frigo pieno di pane in cassetta, uova e maionese. Indovinate cosa ho mangiato, visto che ero lì da solo, lontano dal centro, e che mi era stato consigliato di non uscire per ragioni di sicurezza? Lunedì mattina lo stesso autista è venuto a prendermi, e mi ha portato a un piccolo aeroporto, dove ho fatto il check-in in un capannone e poi sono salito su un aereo con sedici posti, diretto a nord-est. Il paesaggio sotto di me si fa sempre più brullo, la regione sembra disabitata, si vede una strada in terra e qualche villaggio. Atterriamo su una pista dove ci sono vari aerei ormeggiati, inclusi alcuni quadrimotori C-130 col simbolo delle Nazioni Unite, ma praticamente nessun edificio aeroportuale.

E così inizia la mia settimana a Lokichoggo, al confine con il Sudan. In una regione quasi disabitata, si è stabilito il centro organizzativo del PLS, Project Lifeline Sudan, dove le Nazioni Unite, l?Alto Commissariato per i Rifugiati, la Croce Rossa, Medici Senza Frontiere, e chi più ne ha più ne metta, si sono messe insieme per organizzare degli aiuti al Sud-Sudan, disastrato da guerra civile e carestia, senza passare per il governo centrale di Karthoum. In una regione arida di savana arbustiva, spazzata da un vento caldo e secco che solleva all?infinito una polvere rossastra, c?è quindi un grande ?campo? con case, uffici, tende, bar, ristoranti, una piscina, camion e jeep che vanno e vengono. Il tutto è circondato da filo spinato, e dei guardiani pretendono di vedere una tessera prima di lasciarti passare. La maggioranza delle costruzioni sono coperte da un tetto conico in paglia, credendo forse di integrarsi alla cultura locale, ma il tutto fa un po? pensare, soprattutto dalla parte dei ?club?, cioè dei bar-ristoranti, a un Club Méditerranée vecchia maniera. I numerosi piloti si notano per il loro atteggiamento un po? macho, e sono i più animati al bar. Intorno al campo si è creata una vera e propria cittadina, o piuttosto una baraccopoli, con numerosi Turkana, l?etnia della zona, che, vestiti e ingioiellati alla maniera tradizionale, sperano di raccattare qualche briciola di questo sforzo umanitario internazionale. Ho passato una settimana a imparare in un piccolo laboratorio polveroso come diagnosticare la Leishmaniosi, e ho avuto la mia dose di emozioni e delusioni. L?emozione l?ho subita quando, tornando dal ristorante al campo di MSF dove alloggiavo, ho visto in lontananza quello che dapprima credevo essere il fumo di un fuoco, poi della sabbia sollevata dal vento, e infine ho visto quello che era veramente: una piccola tromba d?aria, che si avvicinava velocemente. Che fare? Scappare? Si, ma dove? Restare fermo immobile? E quella, imperterrita che mi si avvicinava sempre più velocemente! Stavo per buttarmi a terra, quando lei arriva sul tetto del magazzino di MSF e quello, vum! Niente più tetto. Il tutto a venti metri da me. Sul che si è esaurita. Il tetto era di plastica e paglia, quindi forse il pericolo non era poi tanto grande, ma mi sono preso un bello spavento lo stesso. La delusione, invece, è stata quando un funzionario del WFP (World Food Programme) mi suggerisce di andare a fare un giro sugli Hercules che paracadutano cibo sul Sudan, pare che basti chiederlo il giorno prima. Eccitatissimo all?idea, quasi non ho dormito, e ecco che per motivi non chiari non si è potuto fare. Peccato.

Dopo una settimana in quel bel posto, torno a Nairobi, e da lì parto per Kampala. Un autista mi viene a prendere a Entebbe, uscendo dall?aeroporto si vede la carcassa che arrugginisce del famoso Boeing della Air France dirottato, e dopo una quarantina di chilometri di strada lungo il lago Vittoria eccoci a Kampala, circondata da verdi colline. Alla Guest House di MSF sono stato accolto molto meglio che a Nairobi e portato a rifocillarmi in un ottimo ristorante etiope da Lisa, Svizzera, e Rudiger, tedesco, tutt?e due molto simpatici. Il giorno dopo non ho avuto un attimo di tregua: dopo due ore di briefing con Regina, la capomissione, ho scorrazzato tutta la città alla disperata ricerca di materiale da laboratorio mancante. La sera, invitati a pranzo da Regina, ho potuto assaggiare l?ottimo pesce del lago Vittoria. Il giorno seguente, un martedì, partenza per Amudat, la mia destinazione. L?autista mi accompagna di nuovo a Entebbe, dove non solo pesano il bagaglio, ma anche il sottoscritto, visto che devo volare con un aeroplanino della MAF, la Missionary Air Force. L?unico altro passeggero è un medico Italiano, che fa parte del viaggio con me. Finalmente ci accompagnano all?aereo, un minuscolo Cessna monomotore, dove il pilota ci accoglie, e mi fa sedere davanti, vicino a lui. Dopo alcune istruzioni sulla sicurezza, si mette a pregare. Poi si parte, e è molto interessante volare bassi, e poter seguire sulla carta tutto il percorso. Abbiamo attraversato un temporale, gli scrosci d?acqua si abbattevano sul parabrezza, e alla mia destra un fulmine ha saettato veloce verso terra. Traversiamo vaste paludi, poi il paesaggio si fa sempre più secco e ci apprestiamo ad atterrare a Matany, destinazione del mio compagno di viaggio, un ospedale missionario Italiano che avevo visitato nel ?98. Non c?è aeroporto, ma solo una ?airstrip?, cioè una pista in terra battuta. Il pilota fa un giro affinché i bambini sgomberino e per accertarsi che non ci siano vacche o capre, poi atterra, tra le acclamazioni di una folla urlane e ridente. Scendo a sgranchirmi le gambe, e vengo avvicinato da un ragazzino che parla inglese, accompagnato da un adulto che non lo parla, ma vestito in maniera tradizionale, e sembra voglia vendermi un uovo di struzzo. Io ovviamente accetto, già cerco di immaginare come cucinarlo, ma quello deve tornare al villaggio a prenderlo, e il pilota mi dice che non c?è tempo. Ripartiamo, ottengo il permesso di aprire il finestrino per fare delle foto (non è una buona idea) e arriviamo all?aeroporto di Amudat, cioè un?altra striscia di terra in mezzo alla sterpaglia, questa volta priva di bambini e di bestiame, ma con un a jeep di MSF ad aspettarmi.

A prendermi è venuta Muriel, dottoressa Ginevrina, e vengo accompagnato al ?compound?, cioè il luogo dove vivrò i prossimi tre mesi. Una grande spianata in terra con qualche fico d?india, circondata da cinque casette: una ha la cucina e il salotto-sala da pranzo, un?altra contiene i servizi igienici e la doccia, le altre tre sono le camere da letto. Per me, però, non c?è posto, e in attesa che la mia reggia venga costruita, mi viene mostrata  un?immensa tenda bianca, sotto la quale c?è un letto, un tavolo, una sedia, e un mobile a scaffali. Sul tavolo, una lampada a petrolio. La corrente elettrica c?è in salotto e in cucina, sotto forma di un sistema a pannelli solari e c?è anche un generatore, che viene acceso di sera per caricare le batterie dei computer e permettere al telefono satellitare di funzionare. In teoria abbiamo l?acqua corrente, ma c?è solo quando il vento è sufficiente ad aspirare con un mulino l?acqua dal pozzo artesiano; normalmente usiamo delle cisterne e delle brocche. Per fare la doccia, bisogna riempire un cesto di gomma con attaccato il pomolo e tirare il tutto su con una carrucola. Funziona molto bene, e se lo riempiamo con l?acqua di un serbatoio di plastica nero rimasto al sole tutto il giorno, abbiamo anche la doccia calda.

A prendersi cura di noi ci sono Magdalena e Cecilia, che ci preparano da mangiare, fanno le pulizie, lavano e stirano. Cecilia è molto bellina e molto incinta. Adesso che sto scrivendo, sento un grande rumore di acqua e fuoco; è Cecilia che immerge un ferro da stiro pieno di carboni ardenti dentro una bacinella d?acqua per raffreddarlo. Dal punto di vista culinario, non è il massimo. Da un lato, le ragazze non sono ne Excoffier ne Gualtiero Marchesi; dall?altro c?è una grave mancanza di ingredienti. Abbiamo della farina di granoturco bianco, del riso, dei fagioli, pochi pomodori, delle foglioline verdi che si cuociono come gli spinaci, a giorni della carne di capra (non male le trippe...), qualche uovo. A volte arriva in paese un camion, e si possono comperare papaie, manghi, canna da zucchero. Meno male che la birra non manca, e grazie al nostro frigorifero a kerosene la beviamo fresca. Per fortuna ogni tanto arriva da Kampala una jeep con del materiale per noi, e allora ne approfittiamo a far venire scatolame, formaggio, latte, frutta fresca, caffè (ottimo quello coltivato sulle pendici del monte Elgon...) e  varie altre godurie. Al mattino non c?è bisogno della sveglia: ci pensano le campane della ?chiesa?, il ragliare degli asini, i galli, i bambini, il sole.

Lavoriamo all?Health Center, una specie di piccolo ospedale dall?altra parte della strada; per arrivarci ci basta attraversare gli alloggiamenti del personale, un insieme di baracche e casette con bambini e pollame intorno a una fontana dove c?è sempre la coda per riempire d?acqua dei bidoni di plastica gialla. L?health center è composto da un insieme di costruzioni basse dove ci sono i reparti, settanta letti e altri sessanta materassi, gli ambulatori, il laboratorio, l?ufficio, la farmacia e le latrine. E stato di recente aggiunto un obitorio, e c?è un progetto per migliorare l?inceneritore, costituito da un bidone arrugginito nel quale vengono versati i rifiuti infetti a cui viene dato fuoco dopo averli cosparsi di kerosene. Un nuovo reparto è appena stato costruito, intonacato, e poi dipinto di un bel giallo. Solo allora si sono accorti che si erano dimenticati di aprire la porta. Io passo le mie giornate in laboratorio, una stanza polverosa, insieme a Peter e Andrew, un farmacista e un aiuto-infermiere locali, diventati tecnici sul mucchio. Il più giovane, Andrew, è pieno di buona volontà e impara molto in fretta. Siccome non c?è corrente elettrica, ma solo un piccolo sistema a pannelli solari che comunque in laboratorio non arriva, noi ci arrabattiamo, dalla centrifuga a manovella al microscopio con lo specchietto invece della lampada. Fuori dalla porta si forma la coda dei pazienti che viene a farsi prelevare il sangue, e ogni tanto bisogna avere stomaco e cuore ben saldi. L?altro ieri sento un odore spaventoso e il pianto di un bambino, e vedo una mamma che tiene in braccio un pargolo con il lato destro della bocca tutto mangiato, viola di disinfettante. La dottoressa Kobi Boer, mia collega olandese, entra e mi dice che non sa se quel bambino sopravviverà. Le chiedo che cos?ha, e mi spiega che si tratta di ?Cancrum Oris?, una specie di gangrena della bocca, e che l?odore che ha invaso tutto il laboratorio viene da lì. Per fortuna in quel posto succedono anche cose positive; la tecnica per la diagnosi della leishmaniosi, per la quale sono stato inviato ad Amudat da MSF, funziona bene, e i miei due colleghi stanno imparando in fretta ad eseguirla. E molto importante, perché si tratta di una malattia sempre mortale, ma perfettamente guaribile. Ora la cura è non solo molto costosa, ma anche parecchio pesante, con una certa tossicità e effetti collaterali. E quindi importante darla solo ai malati di Leishmaniosi, e non a chi è affetto da malattie con sintomi simili, come la malaria, la brucellosi o la splenomegalia tropicale.

Amudat è un borgo di due-tremila abitanti, composto da una strada in terra fiancheggiata da tre o quattro case porticate, e un insieme di costruzioni a metà strada tra la baracca, la capanna e il prefabbricato. ci sono due stazioni di servizio abbandonate, con le pompe che arrugginiscono, alcuni negozietti che vendono sapone, farina, riso, zucchero, uova, pile, biro, coca-cola e poco altro, e un sacco di gente, in  maggioranza di etnia Pokot, per la strada tra asini e capre. Sono quasi tutti vestiti alla maniera tradizionale, non molto diversa da come si vestono i Masai, con collane multicolori e orecchini, gli uomini con un manto color mattone e un gonnellino corto e stretto.

L?altra sera si sono fermati a pranzo qui da noi due notabili del posto, e dalle loro storie abbiamo potuto saperne un po? di più sulle tradizioni Pokot. In questo periodo c?è tensione, perché ci sono state razzie di bestiame in alcuni villaggi della zona. Ci ha spiegato che una volta quando un uomo voleva sposarsi, doveva dare alla famiglia della fidanzata cento mucche. Vi rendete conto, CENTO vacche per UNA donna? Sembra che quando nasce una bambina, sia una benedizione, perché quando poi cresce c?è il bestiame assicurato per tutto il clan. Mentre se viene alla luce un maschietto, d?accordo, il suo ruolo nella società sarà quello di sorvegliare e accrescere la mandria, ma quando quello vorrà trovarsi moglie, Dio mio che pagata! Ora ci sono problemi economici, c?è un po? di carestia e quindi alla borsa Pokot è crollato il valore della donna: adesso bastano trenta capi per una fanciulla. Insomma, manca il bestiame, e queste razzie sono il risultato non della necessità di mangiare, ma bensì del desiderio altrettanto naturale di trovarsi una fidanzata.

Purtroppo queste razzie si svolgono a volte in maniera molto violenta: la settimana scorsa è arrivato un camion all?Health Center con una decina di feriti, bendati alla meglio. Sono stati scaricati e curati dalle mie colleghe, erano tutte ferite da arma da fuoco. Muriel ha dovuto arrabbiarsi con un ferito, che voleva portarsi dietro il Kalashnikov, nonostante il divieto formale: all?ingresso dell?ospedale c?è un grande cartello bianco, con un cerchio rosso, all?interno del quale c?è un Kalashnikov barrato. Le hanno obbedito, qui siamo molto rispettati. Sembra che al villaggio, trenta chilometri da Amudat, siano morte tredici persone, quasi tutti donne e bambini. Non preoccupatevi per noi: Amudat e i suoi immediati dintorni sono tranquillissimi, e qui non esiste banditismo, terrorismo, guerriglia o saccheggi: c?è solo questo problema delle razzie di bestiame tra Pokot, Karimojong e Turkana, che esiste da almeno un secolo, e purtroppo le lance sono state sostituite dai Kakshnikov. A Amudat non ci sono mandrie, e le poche cose che potrebbero trovare al compound, all?ospedale o in paese non valgono per potersi sposare.

Dopo aver passato parte della domenica a scrivere credevo di aver finito, stavo cercando i vari indirizzi e-mail di tutti gli amici, quando mi portano un bigliettino scritto da Muriel che dice testuale: ?c?è un caso di meningite potenziale, sto per fare una puntura lombare, devi venire a fare una colorazione di Gram?. E così sono andato all?imbrunire in laboratorio, ho cercato i vari manuali per implementare una tecnica che non conoscevo, e quando il sole è tramontato mi sono trovato al buio. E così mi sono trovato a preparare vetrini di microscopio con materiale potenzialmente infettivo alla luce di una lampada a petrolio. Prima uno striscio di liquido cefalo-rachidiano, centrifugato con una manovella per tentare di eliminare i globuli rossi, poi una goccia spessa per la malaria. Alla fine ne Muriel ne io siamo riusciti a concludere un granché dai nostri vetrini e il piccolo paziente è stato trattato per meningite e malaria, in attesa di esami più approfonditi eseguiti domani alla luce del sole.


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