MSF missions

08/09/2007

Dinsor e Belet Weyne, Somalia - Settembre 2007

Autore: Roberto La Tour

Arrivo a Nairobi di sera, e sono portato alla guest-house, dove mi accorgo che tutte le camere sono occupate, e dovrò quindi scegliermi un letto, apparentemente nell’unica camera con la porta aperta. La faccia della persona che occupa l’altro letto mi sembra non solo di genere femminile, ma anche famigliare… Il giorno dopo scoprirò che si tratta di Shaghig, una dottoressa libanese – armena che avevo conosciuto in Uganda. Passo quindi una giornata in ufficio a Nairobi, e la sera andiamo tutti in un ottimo ristorante etiope. Quindi dopo una notte troppo breve, all’alba ci accompagnano all’aeroporto, destinazione Somalia.

Ci imbarchiamo su un aeroplanino ad elica, pare che sia per robustezza e capacità di carico un vero trattore dei cieli, un Cessna Caravan, e via per la mia prima destinazione, Dinsor. Dal cielo vediamo un paesaggio di arbusti e sterpaglia secca, ma gli alberi non mancano. Atterriamo su una pista in terra, dove è venuto a prenderci il responsabile del progetto, Antoine, con due furgoncini aperti con scorta di guardie armate. Shaghig e Kate, una dottoressa canadese, proseguono, mentre dall’aereo scende insieme a me Manfred, il logista austriaco. Ci portano a casa, molliamo la nostra roba, e poi via all’ospedale, sempre in convoglio con due veicoli con dietro i guerrieri. Lì ho subito messo alla prova le capacità dei due tecnici locali, Nor e Abdukhader, perché Antoine si è piantato un ago nel piede e abbiamo fatto vari test.

E così è cominciata la mia vita tra casa e ospedale, sempre con la scorta, senza mai avere il diritto di andare da nessuna parte per motivi di sicurezza. L’ospedale è un’accozzaglia di baracche, strutture in muratura e altre in vimini, ma c’è Marcello, un  architetto Italiano, che sta guidando la costruzione dei reparti e del laboratorio. Per ora gli esami del sangue vengono effettuati in una specie di sgabuzzino, mentre quelli del catarro dei pazienti con la tubercolosi in un’altra stanza (questo è normale, è per evitare il pericolo di contagio). Ho parlato di tubercolosi, e infatti dall’altra parte della strada c’è il “TB Village”, che è una specie di lazzaretto dove vengono ricoverati i pazienti con la tubercolosi. Lì vengono loro distribuite le medicine, le razioni di cibo, e dietro la farmacia vengono raccolti i campioni di catarro. Bisogna però dire che è un grande successo, funziona benissimo, e il tasso di guarigione è molto alto. I pazienti ricevono le medicine sotto forma "DOT" (Directly Observed Treatment), cioè si sorveglia che le prendano davanti agli infermieri, per evitare che le pastiglie vengano vendute o semplicemente non prese.

Per il resto è, in fondo, un ospedale normale. Vimini o muratura, ci sono delle stanze con dei letti, mentre nell'ambulatorio affollatissimo vengono pesati (appesi a una bilancia) e esaminati bambini urlanti, soprattutto se gli si punge un dito per fare il test rapido della malaria. Gli viene pure misurato il tasso di emoglobina, e se sono molto anemici in laboratorio già sappiamo che dobbiamo cercare un donatore di sangue. In Somalia non abbiamo il diritto di donare, perché c'è il rischio che se il paziente muore lo stesso, incolpino noi di avere qualcosa di cattivo nel nostro sangue.

La casa in cui viviamo è costruita intorno ad un cortile, da un lato l'abitazione e dall'altro l'ufficio, con fili elettrici da tutte le parti. C'è un acquario artificiale in salotto, dono di chi ci ha fornito i mobili, e si mangia in veranda. Il bagno sembra un cantiere, con le macchie di cemento sui muri, ma perlomeno c'è un vero water e lo sciacquone è un secchio. Siamo in pieno periodo di Ramadam, e i somali, musulmani praticanti integerrimi, non mangiano ne bevono dall'alba al tramonto. Ciò ha creato parecchie tensioni: quando è l'ora di "rompere il digiuno" in fin di pomeriggio, gli autisti e le guardie del corpo friggono per rientrare, appoggiati in ciò da Halima, ufficialmente keniota e quindi espatriata come noi, ma in verità somala molto musulmana. Ci sono stati grossi litigi tra lei e due francesi, un medico e un infermiere, addirittura accusati di "razzismo". Assetati ed affamati, in fin di giornata perdono comprensibilmente molta tolleranza. Ma hi glielo fa fare?

Il percorso tra l'ospedale e la casa è l'unica cosa di "visibile" della cittadina di Dinsor, visto che è vietato andare da qualunque parte. Strada polverosa, con case basse qua e la, qualche bottega, cespugli spinosi con sacchetti e cartacce impigliate, poco frequentata ma con un certo viavai di asini con o senza un carretto. Ogni tanto, ma di rado, un veicolo, spesso con uomini armati a bordo. Altro di questa città non so, sennonché di notte, alle ore più improbabili, si sentono canti religiosi, appelli di moschee, ragliare di asini e una volta ciò che poteva essere solo un'esplosione.

Dopo una settimana, lascio questo luogo ameno per andare in un'altra località somala, Belet Weyne. Con due furgoni pieni di individui armati, andiamo alla pista, e dopo baci, abbracci e foto di addio intorno al pick-up dall'antenna decorata con palloncini colorati per l'occasione, aspettiamo l'aereo. Eccolo che arriva e atterra in un grande polverone. Si scaricano un po' di provviste, e si parte. Paesaggio simile, ma presto si vede un fiume, e si atterra. Pista sempre in terra, ma terreno più grande, una casetta vuota, un cartellone che reclamizza un albergo e un altro che ci annuncia "Belet Weyne International Airport". Internazionale o no, il pieno viene fatto con dei bidoni e una pompa a manovella. Partiamo, di nuovo con due furgoncini con guardie armate sedute dietro, ad un certo punto sento un urlo, frenata: era la mia valigia che era ruzzolata nella polvere. Miracolo, non si è aperta. Tra i bagagli rimasti sul veicolo c'era anche la scorta di birra.

Belet Weyne è molto più grande di Dinsor, è una vera e propria cittadina, e in centro c'è un viale alberato fiancheggiato da botteghe che annunciano i loro commerci con colorati affreschi. Una mano che benda un piede indica uno studio medico, piatti, polli e pignatte un ristorante. Casa nostra è uno dei pochi edifici di tre piani della città, scale strette, lunghi bui corridoi e un cortile. Sul tetto uno stupendo gran terrazzo con vista su fiume e  cortili delle baracche circostanti, le loro capre e le loro pecore. Ho una camera d'angolo al primo piano, i cessi sono purtroppo alla turca ma le docce (fredde) funzionano. La cucina, la sala da pranzo e l'angolo TV sono all'ultimo piano, e danno sul terrazzo. La cucina sembra a vederla molto primitiva, con i suoi fornelli a carbonella sul pavimento e ha l'aria sporca, ma sono solo macchie di cemento e intonaco. Nessuno è mai stato male.

L'ospedale è a trecento metri lungo lo stesso viale, ma per andarci dobbiamo prendere lo stesso due veicoli con la scorta. Si tratta di un grande edificio spazioso, ben costruito dagli italiani, abbandonato e ripreso da MSF. Per il laboratorio ci sono due belle stanze luminose, ma purtroppo molto calde. Ho fatto la voce grossa per fare aprire una porta chiusa che da sul cortile "di cui non è mai esistita la chiave". Chiave o non chiave, un martello e un cacciavite ci hanno permesso di avere un po' d'aria. Lì si fanno i test per la trasfusione, per la malaria e dei vetrini di pus per determinare l'agente infettivo. Mentre ero lì, sono arrivati parecchi bambini in uno stato pietoso a cui è stata prescritta d'urgenza una trasfusione, e alcuni casi di donne adulte partorienti con emorragie. In questo posto, come ho già spiegato per Dinsor, ci è permesso donare il sangue, e che io sia O- non cambia le cose. Il fatto è che se c'è un qualsiasi problema dopo la trasfusione, c'è un grosso rischio che il clan ci accusi, noi infedeli, di esserne colpevoli a causa di chissà cosa che ci sarebbe dentro al nostro sangue. Per fortuna si trovano sufficientemente parenti per avere il sangue necessario.

Un pomeriggio arriva la bella Shagig con una grossa siringa piena di pus, e mi domanda se possiamo vedere se è un caso di tubercolosi extrapolmonare, le dico che no, non abbiamo i reagenti giusti, ma che posso fare una colorazione di Gram per vedere se è qualcos'altro. Intanto faccio mettere a tutti una mascherina, anche se si tratta di quelle chirurgiche e non quelle speciali ad alta filtrazione, con la tubercolosi non si scherza. Così vedo come i tecnici locali se la cavano con la microscopia, fanno una stupenda colorazione di Gram, si vedono benissimo i grappoletti di batteri viola, e uso la radio (obbligatoria per tutti, sicurezza) per chiamare Shagig: "Gram positive Staphilococcus for Shagig, over.." Insomma, falso allarme, niente TB, una banale anche se grave infezione facilmente curabile con antibiotici.

Avendo espresso un certo interesse per la chirurgia, mi vengono a chiamare per propormi di assistere ad un parto cesareo. La donna è anemica, e quindi prima dell'intervento troviamo un  donatore e raccogliamo una sacca di sangue. Mamma mia, non ho mai assistito ad un'operazione in vita mia! Mi vesto di verde dalla testa ai piedi, ed eccomi dentro. Opera Arnold, il nostro chirurgo keniota, assistito da Shagig e da alcuni somali, formati sul posto. C'è un problema (uno dei tanti) in Somalia: non ci sono (più?) facoltà di medicina ne scuole di infermiere… L'intervento procede, ed a un cero punto tirano fuori un bambino che ai miei occhi inesperti appare violaceo, e invece di occuparsene lo lasciano lì, Arnold ricaccia le braccia dentro il ventre e tira fuori un secondo bambino, e di quello invece si occupano immediatamente, e presto sento i vagiti. Allora capisco: il primo gemello era morto in utero, e impediva al secondo di uscire! Finalmente chiudono un'emorragia interna dovuta a una (credo) rottura dell’utero, ricuciono la donna, il gemello vivo viene preso in carica, il sangue viene trasfuso, e tutto rientra nell'ordine. Purtroppo il giorno dopo scopriamo che la poveretta è deceduta quella notte, sembra che alle 03.00 fosse scritto sulla sua cartella "tutto bene" e alle 03.30 "la paziente ha smesso di respirare". Non sapremo mai le cause della morte, perché secondo gli usi locali e musulmani, il corpo è stato immediatamente portato via… E comunque non abbiamo personale e attrezzature per effettuare un'autopsia, per non parlare dell'accettazione da parte dei clan. Il vero problema è la mancanza di personale qualificato per seguire i pazienti dopo un intervento. Per fortuna dopo pochi giorni sarebbe arrivata un'infermiera espatriata, con il compito di formare del personale e organizzare un vero sistema di guardie notturne.

Per due giorni siamo rimasti tappati in casa, senza poter andare all'ospedale. Cos'era successo? Il "field coordinator" aveva ricevuto delle minacce di morte per SMS. Perché? Semplicemente perché, avendo bisogno di un terzo veicolo, lo abbiamo affittato. Qui non si può acquistare un'automobile, ne importarla. Si "affitta", cioè si prende un auto, un autista, due guardie del corpo, e il "contratto" include tutte queste persone, la benzina e la manutenzione. Ora la abbiamo affittata al clan sbagliato, e qualcuno che avrebbe voluto avere il contratto ha reagito in quel modo. Queste cose non sono da prendere sottogamba, le minacce sono serie, viviamo in un posto dove non esiste lo stato, ma  il paese è controllato da clan e sottoclan spesso in guerra tra di loro. Non possiamo fare lavori di una certa importanza, assumere personale o, come in questo caso, "affittare" un auto senza il consenso dei vari clan. Ora il nostro capomissione era ben conscio del problema, e prima di decidere aveva consultato l'organo supremo di governo della città, una sorta di consiglio degli anziani con a capo il "sindaco". E sono loro ad averci attribuito quell'auto! Ma evidentemente qualcuno non è stato contento. Quegli SMS non sono uno scherzo, una raffica di mitra contro l'auto poteva succedere. Risultato, tappati in casa a guardare la TV satellitare o "Dr House" su DVD, e mi sono consolato preparando un risotto agli spinaci su un fornelletto a carbone.

E così e passata anche la mia seconda settimana in Somalia. In ospedale è arrivato un tizio con una ferita da pugnale nel petto, è stato salvato, sembra che avesse litigato con suo cugino. Eppure, tutti i Somali che ho incontrato, principalmente il nostro staff ma pure dei pazienti, sono così simpatici e carini! Mah… Riparto con la scorta per l'aeroporto, facciamo tre tappe, aiuto a fare il pieno all'aereo con la pompa a manovella, e arriviamo a Nairobi, dove scopro che il volo per Bruxelles invece delle venti parte alle due del mattino, di notte l'aeroporto di Nairobi non ha un solo bar ne bottega aperti, ne ci sono poltrone. A Bruxelles ho perso l'aereo per Ginevra, ma che gioia…


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