MSF missions

08/05/2007

Uganda, Kenya, Congo - Maggio 2007

Autore: Roberto La Tour

Partito subito dopo Pasqua con sveglia all'ora abominevole delle 4,45 del mattino, via Amsterdam e poi Nairobi, per arrivare fresco come una rosa che era quasi mezzanotte, ho perlomeno avuto il vantaggio che la lunghissima strada dall'aeroporto di Entebbe al centro di Kampala era quasi deserta.

Dormo alla guest house in una camera appena più grande del letto, e il mattino dopo rapido briefing in ufficio per poi caricare armi e bagagli in auto e partire con Kristi, la bella coordinatrice medica (MedCo) australiana, alla volta di Gulu. Cinque ore e mezza di strada asfaltata con buchi dritto verso nord, attraversamento del Nilo sull'unico ponte del paese in un punto dove forma rapide violente, ancora un'ora di strada, ed eccoci a Gulu, che si è molto sviluppata dall'ultima volta che ci sono stato, e dove la pace è finalmente ritornata. Siamo andati al laboratorio dell'ospedale generale, è triste vedere apparecchi offerti da donatori che prendono polvere causa mancanza soldi per la manutenzione. Poi visita al laboratorio dell'ospedale missionario di Lacor, dove ero stato nel 1998. Lì si che ne hanno di strumenti in perfetta efficienza, ma quello è un enorme ospedale missionario, finanziato anche dalla cooperazione italiana. E se noi vogliamo trasferirci un paziente, dobbiamo pagare salato! La sera ristorante (cotoletta impanata, birra fresca), doccia, nanna alla guest house. Il mattino partenza alla volta di Attiak: sembra che la strada non sia del tutto sicura, dobbiamo dare di continuo la nostra posizione via radio. Lungo la strada, ci sono dei campi profughi. Finalmente arriviamo, appunto in un altro campo profughi, dove gestiamo il centro di salute, in fondo un piccolo ospedale.

Subito fuori dal campo abbiamo i reparti, l'ambulatorio, il laboratorio, e la zona dove viviamo. Abbastanza carina e comoda, a parte le latrine (che odio) con chiave da dover ricuperare in cucina e da non dimenticarsi di riportare! Io purtroppo ho dormito in uno sgabuzzino dietro l'ufficio perché non c'era posto. Non ho avuto molto l'occasione di visitare i reparti e l'ambulatorio, perché ero preso dal laboratorio, che mi ha dato il suo daffare, ma se la cavano bene. La sera siamo andati a fare un giro al "campo profughi by night", c'è una botteguccia illuminata da due candele che vende anche bibite e davanti trona un magnifico bigliardo, illuminato lui da una lampada a petrolio appesa sopra. Grandi partite, ma ho perso.

Ritorno a Gulu, sempre sullo stesso sterrato tutto buchi in contatto radio permanente con la base, e arriviamo che si scatena il diluvio universale. Ciò non ci impedisce di andare a mangiare il pasticcio di banane (matoke) con le trippe, di andarcene a dormire satolli e soddisfatti e ripartire il mattino dopo alla volta di Kampala. Weekend in città, mercato artigianale, mercato alimentare, visita al tempio indù dove per sbaglio mettiamo in moto un tamburo elettrico, cosa che spaventa il guardiano. Kampala è costruita su un gruppo di colline, e le strade che conducono in centro sono perennemente intasate. Quasi in centro, in un vallone tra due colline, sotto le ville coloniali inglesi, c'è un campo da golf, dall'altro lato sorgono delle baraccopoli.

Lunedì mattina, partenza per Kacheliba, in Kenya. Ci aspettano una decina d'ore di automobile. All'inizio attraversiamo una bellissima, grande, folta foresta, poi grandi distese di canna da zucchero. A Kamapla, quando ero ad Attiak, ci sono state violente sommosse, perché il governo voleva vendere un pezzo della foresta al proprietario, indiano, delle piantagioni. Ci sono stati casi di linciaggi di indiani, e l'arresto sommario di due membri del parlamento. Gli indiani hanno in mano molti business, e quindi è facile girare contro di loro l'ira della folla.

Arriviamo a Jinja, dove ci sono le Sorgenti del Nilo. Non si tratta di sorgenti, ma semplicemente del punto in cui il Lago Vittoria entra nel fiume. Passiamo sulla diga che da elettricità a tutto il paese, continuiamo, ci fermiamo a mangiare a Mbale, e poi finisce l'asfalto. Ci inoltriamo su uno sterrato abbastanza buono, il paesaggio è molto bello, alla nostra sinistra c'è il maestoso Monte Elgon, culminante a più di 4000 m, e vediamo delle cascate. La campagna è ben coltivata, e sembra relativamente prospera. Continuando verso nord, si vede chiaramente che i villaggi diminuiscono, che ci sono meno campi, e che la vegetazione, nonostante sia verde adesso (stagione delle piogge), è da zona molto più secca. La strada si inerpica, ridiscende, diventa un orrido sentiero di fango, ma il paesaggio è sempre bellissimo, con davanti a noi il Monte Kadham coperto da nerissime nuvole temporalesche. Arriviamo ad Amudat, dove avevo passato tre mesi nel 2000, proseguiamo, la strada, sempre spaventosa, è adesso sabbiosa, ci fermiamo in mezzo alla sterpaglia spinosa per l'inevitabile fotografia accanto alla stele che dice "Kenya", continuiamo ancora per un ora, ed eccoci finalmente a Kacheliba.

Il posto è bellissimo: una natura da clima secco, di acacie e arbusti spinosi, grandi cactus, ma il tutto molto verde, perché come ho detto è la stagione delle piogge. L'ospedale, o piuttosto l'"health centre", si trova prima di entrare in paese, di fianco ci sono i nostri alloggiamenti, ed è sormontato da una montagnola dalla cima a forma di tartaruga. Arriviamo che è quasi sera, andiamo quindi direttamente a casa. La mia camera è spaziosa, la doccia si fa con un bidone e mezza bottiglia di acqua minerale tagliata, e purtroppo i gabinetti sono latrine fuori, lontano. Di notte, bisogna munirsi di pila.

Nei tre giorni passati lì, ho potuto non solo valutare il lavoro del laboratorio e capire le difficoltà e i problemi (e cercare di risolverli), ma anche visitare il resto del progetto, vedere un po' l'ospedale, andare a fare un giro in paese e arrampicarmi sulla montagnola a forma di tartaruga. Il nostro è un progetto di diagnosi e cura della leishmaniosi viscerale, detta anche Kala Azar, una malattia mortale ma curabile trasmessa da minuscoli moscerini, i flebotomi, da noi chiamati comunemente pappataci. MSF ha montato una grande tenda, dove i pazienti vengono esaminati, se la malattia è sospettata vengono mandati in laboratorio per un prelievo di sangue, in alcuni casi gli viene effettuato pure un prelievo di milza, poi sotto la stessa tenda avviene la distribuzione delle medicine e l'amministrazione delle iniezioni (con urla immani da parte dei bambini, sono punture dolorose). I pazienti sono tutti Pokot, e vengono vestiti in maniera tradizionale, simile ai Masai. Altre tende contengono dei letti, e fungono da reparto, perché non c'è posto per tutti nelle costruzioni in muratura. Molto carina è la cucina, tanti incavi scavati nella terra battuta, con della carbonella dentro, e delle pentole sopra.

Uscendo dal laboratorio, noto un giovane, molto bello con il suo drappo rosso, seduto per terra che sputava sangue. Mi inquieto, ma erano già andati a chiamare un medico (uno dei nostri del progetto Kala Azar, evidentemente più motivato che quelli ufficiali dell'ospedale keniota). Lo rivedo più tardi, disteso per terra sulla veranda di un reparto, con una flebo e che apparentemente aveva vomitato grandi quantità di sangue coagulato. Inoltre continuava a perdere sangue dalla bocca, e non tratteneva una compressa che qualcuno cercava di convincerlo a tener premuta. Mi spavento, poveretto, e chiedo che mi spieghino tutta la storia. Be', a farla breve, gli hanno cavato un dente con un coltello (brrrr…!) nel suo villaggio, e poi per "tirarlo su" gli hanno fatto bere il sangue di due capretti, ed è quello che ha vomitato. Promesso: non mi lamenterò mai più del mio dentista.

La sera ci sediamo per discutere del progetto, poi semplicemente chiacchierare, sotto la tettoia di lamiera che abbiamo pomposamente battezzato "veranda" Qualche sedia, un tavolo, una lampada al neon… La quale purtroppo attira milioni, no miliardi di insetti che vanno a morire lì e ci cadono addosso. Non ho mai visto una cosa simile, non era pioggia, non era grandine, era una specie di manna, chissà?

Quando ho avuto due ore libere, mi sono inerpicato sulla montagnola, in un vero bosco, purtroppo con molti rovi. Non sono arrivato in cima, perchè sulla sommità c'è una roccia pericolosa da scalare, ma da dove sono giunto la vista è mozzafiato: un immensa distesa si rovi e acacie verde chiaro, con montagne e roccioni in distanza, sotto di me il paese, a sinistra un piccolo fiume. Il giorno dopo abbiamo fatto un giro in paese, il posto e la vista sono proprio bellissimi, il fiume ha l'acqua color rosso acceso e c'era gente che denudatasi e insaponatasi, si lavava vigorosamente. Un Pokot drappeggiato di blu elettrico ci seguiva, per poi fermarsi davanti a un locale a giocare a una specie dei dama. All'interno c'era un bigliardo, sui cui muri c'erano strane scritte come "No Coaching" e "Osama is a Hero". Tornati a casa sentiamo grandi "beeeeee", sono le due capre legate dietro la cucina, che avremmo mangiato la sera per la festa. Festa che poi ci fu, una capra grigliata l'altra in umido, tutti seduti in cerchio illuminati e intorno il buio più assoluto. Poi si è pure ballato. Il cielo, in quelle notti senza luna, è incredibile, milioni e milioni di stelle che si possono quasi contare.

Ripartiamo per Kampala, ma a Amudat prendiamo l'aereo. Mezzo paese viene a vedere l'arrivo e la partenza dell'aereo, infatti è un avvenimento: lì c'è solo una airstrip, cioè un lungo prato con un preservativo a strisce bianche e rosse in cima a un palo. L'aereo è un piccolo apparecchio della MAF (Missionary Air Force), con una bella pilotessa che fa la preghiera prima di decollare. Il viaggio è spettacolare, con il monte Kadham sulla sinistra e più tardi le grandi paludi del Nilo sulla destra, infine sempre il Nilo, tumultuoso, che si getta nel Lago Vittoria.

Secondo weekend a Kampala, con festa al ristorante etiope e visita della città con bella dottoressa libanese. Visita a due laboratori di alto livello, con finanziamenti americani. Aperitivo sulle righe del lago Vittoria, proprio un bel posto. Poi lunedì mattino all'alba partenza, sempre con la MAF, per Bunia. Dritto verso ovest, sorvoliamo il bellissimo Lago Alberto, e atteriamo a Bunia, nella Repubblica Democratica del Congo (RDC, ex-Zaire). All'aeroporto vediamo parecchi elicotteri bianchi armati, sono quelli dei caschi blu dell'ONU. Dall'aeroporto alla casa di MSF ci sono dei posti di blocco, con sacchi di sabbia e autoblindo bianca, sempre dei caschi blu. Arrivo alla casa, carina, costruita intorno a un giardinetto dove sotto una tettoia di legno e paglia c'è la sala comune e la cucina (a carbonella). Mi rifocillo di caffè, e vado all'ospedale. E questo non è un "health centre", ma un vero, grande ospedale. E' il fiore all'occhiello di MSF-CH, ci sono le cure intensive, il reparto emergenze, la pediatria, l'ortopedia, la maternità, la chirurgia normale e quella ostetrica. L'ospedale è parzialmente costruito, i reparti che non hanno ancora una struttura in muratura sono sotto teli di plastica con pali di legno, ma il cantiere prosegue. Il laboratorio è ancora sotto teli, ma non è male. Vi trona la "banca del sangue", di cui andiamo giustamente fieri, cioè un frigorifero dalla porta trasparente con le sacche divise per gruppi. Mi direte "embe'? Cosa c'è di così straordinario?" Be', non sembra, ma la trasfusione è una cosa complicata, e la conservazione del sangue esige un'organizzazione e una logistica rigidissima. Appena arrivo, mi chiedono di che gruppo sono, e alle parole "Zero negativo" mi saltano quasi addosso, c'è un bambino che sta morendo e non trovano sangue del gruppo giusto. E alé, una sacchetta pediatrica fu data.

I reparti sono molto grandi, lunghe stanze con facilmente quaranta letti, venti per lato, tutti sormontati da una zanzariera. Facendo il giro dell'ospedale, ho potuto vedere come funziona: per esempio, siccome l'elettricità non è ne tanta ne costante, e garantiamo con il generatore i frigoriferi esenziali come quello per il sangue e quello per i vaccini, oltre al blocco operatorio, tutto il bucato è fatto a mano, ma le lavandaie sono numerose e sorridenti. Ciò che invece non fa sorridere è la gravità delle condizioni di numerosi pazienti, la malaria miete vittime, e a volte non ci arrivano in tempo. Poi ci sono i casi di meningite, i feriti da arma da fuoco, le donne picchiate, quelle violentate, i parti a rischio, eccetera. Comunque il lavoro che fanno lì è incredibile.

Una sera siamo andati a una festa di beneficenza, al "ristorante greco" di Bunia. Non è che sia veramente un ristorante greco, si mangia cucina locale (buonissimo il pesce del Lago Alberto), ma sui muri sono dipinti gli eroi della mitologia greca. Attraversiamo la città, tutta al buio, ma alla luce della luna sembra sgangherata assai. Gli avventori sono quasi tutti italiani, della cooperazione e di varie ONG. La serata è in onore di due suore congolesi, che da sole hanno montato un orfanotrofio per più di ottanta bambini. Hanno iniziato in piena guerra, nel 2002, e pare che abbiano dovuto addirittura andare a mendicare il granoturco nei mercati. Quelle due suore mi hanno molto colpito. Non sembra che ci sia folla di genitori adottivi potenziali che bussi alla loro porta; e io domando e dico: possibile con le difficoltà che ha chi vuole adottare, non sia più facile farlo? Gli adottandi si scoraggiano, e questi bimbi nessuno li adotta. Avevo visto una cosa simile in Malawi, lì erano le suore di Teresa di Calcutta che gestivano un orfanotrofio. Come mai la Chiesa Cattolica, con il suoi immenso potere mediatico, politico e diplomatico, non fa pressione sui governi affinché facilitino e semplifichino le pratiche di adozione? Potrebbero se volessero! Comunque quella sera, con il nostro contributo (con il quale abbiamo anche mangiato e bevuto, lo ammetto) hanno raccolto più di ottocento dollari per l'orfanotrofio.

Infine ritorno a Kampala, sempre con la MAF, pranzo al ristorante etiope, giro in centro a cercar regali, aeroporto, e partenza per il lungo volo di ritorno


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