Stralci

14/07/2004

L'obbligo del baciamano

Autore: Alberto Denti di Pirajno
Tratto da: "La nostra Africa" di Angelo Del Boca
Scrittore finissìmo e stravagante, medico, gastronomo, alto funzionario coloniale in Libia, Somalia ed Etíopia, il duca Alberto Denti di Pirajno (La Spezìa 1886 - Roma 1968) aveva studiato medicina a Firenze e a Roma, si era guadagnato una inedaglia di bronzo nel corso della Grande Guerra ed aveva assistito al disastro di Caporetto. Inviato, nel dopoguerra, in missione in Macedonia, vi aveva imparato il turco, l'arabo e il persiano. Nel 1924 lo ritroviamo in Tripolitania, nella piccola località di Buerat el Hsun, come medico di un reparto di meharisti al comando del duca d'Aosta. Più tardi, dopo essere passato definitivamente al servizio coloniale, ricopriva importanti íncarichi in Eritrea e in Somalia e, dopo la conquista dell'Etiopia, diventava capo di gabinetto del vícerè Amedeo duca d'Aosta. Nominato nel 1941 prefetto di Tripoli, due anni dopo era costretto a consegnare le chiavi della città al generale Bernard Law Montgomer)~ comandante della vittoriosa VIII Armata britannica, il quale lo spediva per tre anni in un campo di concentramento del Kenya. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo La mia seconda educazione inglese (Longanesí, Mílanci 1971) e Un inedico in Africa (Neri Pozza, Vicenza 1952), dal quale togliamo le pp. 176-181, che tracciano un sanguigno e delizioso ritratto delle donne italiane che vivevano in Eritrea negli anni '20 del '900.

L'obbligo del bacìamano

Dopo la rivoluzione francese si disse che chi non aveva víssuto prima delle stragi di settembre non aveva conosciuto la gioia di vivere. Certamente chi non ha vissuto nell'Erítrea di vent'anni fa non può capire l'incanto che hanno avuto certi ambienti coloniali.

L'Eritrea era governata in quel tempo da un uomo dotato di qualche virtù e di molti difetti. Era onesto e questo lo metteva in cattiva luce e gli attirava scarse simpatìe. Inoltre non era un uomo politico ed aveva percorso la carriera coloniale dai gradi più modesti sino alla greca di governatore: conosceva perciò così bene tutti i trucchi e le malizie del mestiere che Commissari regionali e Direttori di Governo non potevano mai usare con lui quegli innocenti stratagemmi e piccoli sotterfugi che rendevano piacevole la vita dei poveri funzionari governati da alti gerarchi spediti da Roma, immuni da esperienze africane, persuasí che gli alisci fossero tribù di cannibali.

A compensare queste imperfezioni aveva un ottimo apparato digerente e gli piacevano le donne.

La presenza di un governatore díspeptico e misogino può costituire un pericolo gravìssimo: ho potuto constatare di persona come un semplìce gelato, oppure una salsa drogata e a volte una piccola tartìna di caviale possa scombussolare per una settimana la vìta d'una colonia. Non parliamo delle catastrofi che devastano una amministrazione coloniale quando nel governatore l'istinto sessuale è compresso da quel complesso d'ínferíorìtà che tiene tanti uomini austeri e morigerati lontanì dalle donne. L'effetto di un'audace scollatura su un governatore cattolìco, astemio e iperteso creò in un nostro possedìmento d'oltre mare una tale babilonia che un terzo dei funzionari chiese il rimpatrio.

Il governo centrale elargíva all'Erítrea un contributo annuo di venti milioni: gli stípendi erano irrisori, ma un capretto - se sì dava la pelle della bestia al pastore - costava una lira.

Gli ufficiali erano pochi e pochìssimi i funzionari. L'affiatamento fra civili e milìtarí era perfetto: si fraternizzava al caffè Merlo, in qualsiasi mensa di battaglione il funzíonario era accolto a braccia aperte e l'ufficiale in missìone in regioni sperdute sapeva di avere in ogni Commissariato e in ogni Residenza un posto a tavola e un letto. Al circolo di Asmara ufficiali e borghesi ballavano tutti insieme la quadriglia che un archivìsta da trent'anni in Eritrea dirigeva in un gergo franco-beneventano che solo gli iniziati potevano comprendere.

Sopravvivevano ancora alcuni di quegli ufficìali ignoti ìn Italia che avevano costruita la Colonia. Erano vecchi ed era facile mettere in ridicolo le loro manie. In generale non erano colti e appartenevano tutti alla categoria degli «insabbiati», ma avevano lavorato in Colonia quando davvero la vita coloniale era un'avventura, avevano inquadrato le popolazioni senza forze di polizia, avevano organizzato i territori senza l'aiuto di nessuno, senza contributi statali erano riusciti a creare un'amminístrazione che ancora, a distanza di decenni, rappresentava l'ossatura della Colonia. I giovani funzionari vani della loro dottrina restavano perplessi e smettevano dì fare dell'ironia quando vedevano che ancora il piano regolatore dì Cheren doveva per forza seguire le linee traccìate trent'armì prima dal colonnello Fioccardi, quando ascoltavano il colonnello Talamontí parlare delle genti dell'altopiano, quando si accorgevano che se volevano capire qualcosa delle popolazioni Baria e Cunama dovevano rìcorrere al volume di Alberto Pollera nel quale nessuno in vent'anni aveva potuto aggiungere una riga o modificare un giudizio.

Asmara era un centro modesto che ancora non aveva ìdee imperiali. Gli indigeni giravano scalzi, andavano a scuola e s'impiegavano negli uffici governativi senza pretendere la nomina a ministro di Stato.

Il migliaio d'italiani della capitale si contentava di sbarcare il lunario nella maniera meno sgradevole lavorando, andando a caccìa e facendo all'amore. Ma quello che adesso può sembrare favoloso è che quelle centinaia d'italiani - malgrado i pettegolezzi ìnevitabili in un microcosmo nel quale ognuno sapeva tutto dell'altro - andavano d'accordo fra loro: naturalmente erano d'accordo anche nel dir male del governo, ma il Governatore aveva troppo spirito e troppa esperienza di vita coloniale per farci caso e ascoltava satire e critiche con sorridente filosofia.

In Colonia, oltre agli italiani, sebbene in numero assai minore, vivevano le italiane.

Gli inglesi dicono che a oriente di Suez tutto è lecito a una donna. Devo subito dire che le donne italiane hanno approfittato di questa concessione con lodevole sobrietà. Ma all'influenza del mutato ambiente che finisce col modificare perfino i gusci alle arselle non poteva sottrarsi la fragilità di una donna bianca bruscamente trasferita dalla madre patria in Africa. Un mio collega, il professor Tedeschi chirurgo dell'ospedale di Mogadiscio, in una monografia intitolata Psicología del tangabili (periodo stagionale fra i due monsoni) che l'istinto di conservazione gli consigliò di non pubblicare, studiò queste trasformazioni con dottrina di scienziato ed esperienza di coloniale.

La graziosa moglie del diligente archivísta, del probo ragioniere (che godeva - Dio solo sa perché - fama di congenita idiozia, tanto che un adagio napoletano sentenziava chi nasce fesso muore ragìoníerè o impiegato postale) o del modesto ufficialetto, nata e cresciuta nell'onesto ambiente piccolo borghese dalle tradìzionalì limitazioni, appena metteva piede sul piroscafo cominciava a intravedere un mondo nuovo che le metteva soggezione e nello stesso tempo l'affascinava.

In navigazione tutti gli uomini che le presentavano le baciavano la mano: omaggio mal ricevuto fino allora, ma tanto di prammatíca nell'ambiente coloniale che in un nostro possedimento africano un ufficiale si recò a protestare dal segretario del Governatore perché questi non aveva baciata la mano a sua moglie. All'ora del tè («ma che cosa curiosa questa schifezza») il tenentíno intraprendente o il funzionario romantico le sussurrava che aveva occhi fatali; in una notte di luna sul mare che era tutto fosforescenza il bel ragazzo sfaccendato, al riparo d'una manica a vento, le dava un bacio che la stordiva. La povera creatura pensava di vivere in un romanzo, mentre insidiosi confronti le rivelavano quanto fosse comica l'obesità del marito e disgustoso il ciuffo di peli che gli usciva dalle narici.

Allora nelle colonie imperversava la manìa della nobiltà. Passato il Canale di Suez quella che per gli amici di casa era sempre stata la sciura Rosetta, la sora Rosa o a gna Rusidda si sentiva chiamare donna Rosa; all'altezza di Assab per il Commissario di bordo che leggeva d'Annunzío era donna Rosanna e quando sbarcava a Mogadiscio aveva molte probabilità di diventare contessa.

Nella nuova residenza africana correva il rischio di esser la sola donna bianca in mezzo a una diecina fra funzionari, ufficiali e impiegati: nella migliore delle ipotesi le italiane nei piccoli centri non arrivavano alla mezza dozzina. Ma anche se il marito era destinato alla capitale, le signore metropolitane erano sempre così poche e gli uomini al confronto cosi numerosi che la graziosa nuova arrivata non poteva fare a meno di attirarsi l'acida riprovazione delle brutte e delle anziane e di suscitare il desiderio frenetico di tutti i connazionali dal venti ai sessant'anni.

Possiamo in coscienza condannare la sora Rosa da Fíglìne Valdarno o a gna Rusídda da Gìoiosa Marea se nella residenza di Barentù o alle saline di Hafun fra maschi famelíci che le baciavano le maní dieci volte al giorno, la subissavano di complimenti e la chiamavano contessa ha avuto qualche momento di vertigine durante i quali non ricorda bene quello che ha fatto? lo sono per indole infinitamente indulgente, ma penso che anche i giudici più severi le accorderanno molte attenuanti.

Nelle colonie di data più antica vivevano donne nate in terra d'Africa, figlie dei primi colonizzatori, degli ufficiali delle prime spedizioni, mogli, figlie e nipoti di pionieri che da decenni avevano dedicato la vita al loro duro lavoro.

Kipling in un'ode conviviale giustamente famosa celebra i connazionali che come lui erano nati nei lontani possedimenti della corona britannica. I padri - dice il poeta - avevano avuto la terra per diritto d'acquisto, ma i figli la possedevano per diritto di nascita ed avevano imparato dal loro stesso orgoglio a lodare l'orgoglio del proprio compagno: ricchi, questi compagni che il poeta chiama «uornini di mezzo milione d'ettari». E Kipling si esalta, alza il bicchiere e brinda al fumo dei cento vapori di cabotaggio, alle pecore sui mille colli, agli uominì dai cinque pasti, all'ultimo e più vasto Impero: infine dopo aver salutato anche gli istituti di credito e le centrali elettriche, invita i commensali a cingere il mondo dalle isole della Scozía all'estrema punta meridionale del continente americano con un cavo da rimorchio fornito di un cappio e di un tirante per poterlo affibbiare.

Noi siamo poveri diavoli senza ambizioni e per il nostro ventre affamato basta una cìnghia molto corta: ma pur non possedendo la penna di Klplíng vorrei con voce sommessa parlare delle ignote italiane nate nelle nostre colonie.

Bianche o meticce hanno dato un sapore alla gioia quando arrideva il successo e nelle ore di scoramento hanno sollevato gli animì prostrati dalle avversità. Sono sempre state a fianco dei loro uomini: uonimì che non possedevano mezzo milione dì ettari, ma lavoravano il loro piccolo campo con una fede che dalla loro presenza derivava un senso e uno scopo. Ancora oggi, quando tutto appare distrutto e profanato, sono sempre queste donne che rimaste nelle terre perdute sostengono il coraggìo di chi combatte ognì giorno per il diritto di esistere, alimentano la fiamma che nella madrepatrìa è fuliggine, pregano sulle tombe degli assassinati.

Ahimè, nessuno scrìverà un'ode conviviale in onore di queste creature.